6 ottobre 2016

La Leva Nebbiolistica del 99

La Leva Nebbiolistica del 99

Premesse e promesse

Quando si arriva ad un evento dopo mesi di attesa dal giorno in cui si è prenotato, l’aspettativa non può che essere alta. Tanto più se si tratta di un’orizzontale che investe le sei principali zone di elezione del Nebbiolo in Piemonte. Tanto più se si ha a che fare con un’annata con alle spalle ben diciassette primavere: l’ultima dello scorso millennio, la ‘99.
Basterebbe già questo a preparare tutti i sensi dell’appassionato di vino a un’esperienza che si pregusta come irripetibile; ma non è tutto qui. Ad aggiungere fascino e un certo sentore di eccezionalità, c’è pure il contesto: il Palazzo Reale.

L’avvicinamento: preparare gli occhi e il palato. Il regale Nebbiolo nella sua dimora reale.

Ci avviciniamo al Palazzo attraversando la maestosa Piazza Castello, contornata da Palazzi che testimoniano di secoli di potere e di gusto per l’eleganza, per entrare nel cortile, non prima di aver ammirato l’ampia prospettiva di cui gode l’antica residenza reale. 
Ci prepariamo alla degustazione facendo alcuni assaggi negli assortitissimi stand allestiti dal Salone nel cortile del Palazzo. In merito a questi assaggi si potrebbe aprire un lungo capitolo dedicato, ma sarebbe un dilungarsi in qualcosa che in realtà necessiterebbe un articolo a parte. 
Finalmente arriva l’ora del nostro appuntamento con la storia del Nebbiolo, il vitigno “che si nutre della nebbia”, che come i piemontesi si mostra timido e lento ad aprirsi, quasi un po’ burbero, ma che col tempo si lascia scoprire in tutta la sua eleganza e la sua generosa potenza. 
Presentarci in anticipo ci fa guadagnare il primo posto in coda; entriamo quindi con passo svelto per assicurarci la prima fila della sala. Il passo però rallenta subito, le gambe si fanno molli e un brivido di emozione sale dritto per la schiena: gli interni del Palazzo, che fuori si presenta con la sua sobria ma raffinata imponenza, ci abbagliano con l’esuberanza tipica del barocco: stucchi dorati e damaschi porpora, specchi e affreschi ovunque. Verrebbe voglia di soffermarsi più a lungo, ma il tempo stringe.

Si comincia!

Finalmente siamo in prima fila, centralissimi, come per un piacevole contrappasso rispetto ai tempi della scuola. Si inizia. Capiamo già dal cappello introduttivo che questo percorso tra le varie espressioni del Nebbiolo nell’annata 1999 sarà qualcosa di incredibile. Si parla di un’annata molto fruttata - causa ne è la vendemmia avvenuta dopo Ottobre - in una forma così spiccata da essere definita assolutamente rara da Giancarlo Gariglio.
Mentre i giovani sommelier iniziano a servirci i vari assaggi, ci vengono presentati i nostri relatori. Partecipano all’incontro: Roberto Ferrando dell’omonima Azienda, Gianluca Telloli dell’Azienda Vinicola Nervi, Alberto Arlunno degli Antichi Vigneti di Cantalupo, Roberto Damonte dell’Azienda Agricola Malvirà, Luca Currado di Vietti e Giorgio Rivetti de La Spinetta – Contratto. C’è anche Davide Panzieri per guidarci nella degustazione.

1- Carema di Roberto Ferrando ’99: il Nebbiolo che veniva dal Nord

Roberto Ferrando comincia presentandoci la sua Etichetta Bianca, un Carema. Il Carema è un Nebbiolo che viene prodotto nell’omonimo paesino situato nel nord del Piemonte, dove il paesaggio è già più simile a quelli della Valle D’Aosta, dalla quale dista pochi chilometri, e che Ferrando stesso definisce un piccolo gioiello. Carema, che conta appena 7-800 anime, è presidio Slow Food, e l’eccezionale concentrazione di superficie vitata che ospita gli ha fatto guadagnare l’appellativo di “paese vigneto”: 13 ettari di vigneto per la precisione, con terrazzamenti spinti, di quelli che vengono definiti da “viticoltura eroica”, anche se oggi le vigne non arrivano più ad altitudini di oltre 700 m, e i pochi produttori rimasti lottano quotidianamente contro l’incuria e l’abbandono che da decenni imperversano in una terra così preziosa ma poco riconosciuta dal mercato.  
Apprendiamo che il Carema è una DOC dal 1967, si produce chiaramente da uve Nebbiolo, che qui, curiosamente, come in Valle D’Aosta, prende il nome di Picotendro. Inizialmente il Carema era prodotto a livello hobbistico, poi pochi coraggiosi viticoltori-imprenditori come Ferrando, hanno intrapreso la sfida di fare di questa piccola denominazione un’eccellenza. 
Il vino si presenta subito interessante, con un corpo sottile (parliamo pur sempre di Nebbiolo) e un bouquet elegante. Buona complessità dalle note balsamiche, acidità profonda e un finale di bocca  lievemente “ferroso”, che tuttavia lo rende solo imperfetto ma non disarmonico, a lasciare intendere che questo vino  potrà andare avanti ancora a lungo. Questo Carema è il vino che più degli altri potremmo definire “da beva”, quello che avrebbe bisogno di un piatto per essere goduto appieno.

2 - Gattinara di Nervi ’99: Il Nebbiolo che amava il freddo e la pioggia

La parola passa così a Gianluca Telloli, che ci introduce il suo Gattinara e la sua azienda, Nervi, nata nel 1906 grazie alla lungimiranza di un mercante di cuoio, Guido Ferretti, fratello della moglie Margherita di Luigi Nervi, che venne in seguito coinvolto per un progetto più solido e più ampio. Alla sua morte Ferretti decide di lasciare l’azienda ad alcuni cugini e per 1/4 ai propri dipendenti. Nel 2011 la proprietà di Nervi passa in mano all’attuale proprietario di origini Norvegesi. L’attuale proprietà, da Oslo, sceglie in modo mirato questo azienda, affascinati dalla bellezza di Gattinara, ed incantati dall’umiltà della tradizione della Nervi. Apprendiamo che ancora oggi si vive secondo il motto di Luigi Nervi - Nectar in Tempore. La Val di Sesia, in cui si trova la collina di Gattinara, ha suoli vulcanici, molto acidi, guarda alle risaie del Vercellese avendo alle spalle le Alpi, e si caratterizza per un clima piovoso e freddo: ecco spiegato il terroir per questo Nebbiolo che necessita di tempo per poter diventare nettare. 
E infatti il Gattinara di Nervi ci fa subito capire che se col Carema eravamo partiti bene, il bello doveva ancora arrivare. La pulizia e l’equilibrio qui si spingono ancora avanti, e se il corpo rimane esile (anche qui si parla di altitudini importanti), la trama dei tannini e il bouquet si fanno ancora più raffinati, così come la persistenza si fa più lunga.

3 - Ghemme Collis Breclemae Antichi Vigneti di Cantalupo, 1999: Il Nebbiolo degli antichi suoli emersi

Arriva il momento di Alberto Arlunno, “il custode del Ghemme” (SlowFood). Le poche parole che scambia con il moderatore, attraverso le quali chiede a bassa voce i temi che dovrà trattare, fanno intuire che il nostro vigneron di cose da dire ne ha in avanzo. Infatti quando inizia a parlare è un fiume in piena che riversa su di noi un’interessantissima descrizione della storia geologica del territorio della Val di Sesia, zona che riguarda la denominazione di Ghemme ma anche Gattinara e Carema. Ci parla del suolo, in cui strati profondi di terreno sono emersi grazie allo schiacciamento tra continenti, nello specifico Africa ed Europa. Continua spiegandoci che in alta Valsesia si trova una montagna calcarea con tracce di stalattiti e stalagmiti a 15 km da Ghemme, la quale risente positivamente delle proprietà di questo terreno. Oltre a questo Arlunno ci lascia anche la suggestione di Plinio, secondo il quale l’Uva Spinea - termine col quale si riferisce con alta probabilità al Nebbiolo - gode della nebbia, traendone nutrimento. Come ultima curiosità Alunno ci regala il nome del Nebbiolo in questa zone, “Spanna”.
Il suo vino però, dopo i promettenti inizi delle vicine denominazioni, delude un po’ l’aspettativa. Si presenta infatti un po’ povero, forse fiaccato dagli anni più dei compagni di classe, seppur con spiccate note di viola tipiche del Nebbiolo; ad ogni modo privo di difetti ma poco entusiasmante.

4 – Roero Superiore Riserva Trinità di Malvirà, 1999: un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che sorpresa!

La vera sorpresa non tarda però ad arrivare, quando la parola, ma soprattutto il calice, sono di Roberto Damonte con il suo Roero Malvirà. Roberto Damonte si presenta con l’umiltà di chi sa di avere poca storia e poca gloria rispetto alle vicine Barbaresco e Barolo, ma anche con la fiera dignità di chi pur sapendo di essere il “cugino meno conosciuto” nella scena nebbiolistica, è consapevole di aver fatto un prodotto di grande qualità. La zona del Roero è la prima in quanto a vicinanza da Torino in direzione di Alba. Per questo motivo i vini prodotti in questa zona non hanno mai avuto problemi di vendita e, fino a poco tempo fa, i produttori non si erano mai particolarmente impegnati nel creare un prodotto eccelso, non avendo mai dovuto far fronte a problemi di mercato. Il Roero si trova sulla riva sinistra del Tanaro. Si tratta di terreni che non danno grande potenza all’uva, terreni conosciuti piuttosto per il bianco, il Roero Arneis. Ma quella che Damonte ci racconta è una cantina - quella di Malvirà - che nel Nebbiolo di Roero ha voluto credere molto, puntando soprattutto sul vigneto Trinità, piantato dalla sua famiglia, che oltre a produrre Arneis ha diverse vigne di Nebbiolo. Le uve vengono raccolte molto tardi e le macerazioni sono molto lunghe per permettere al tannino di uscire in modo elegante e meno aggressivo e poi passare 30/36 mesi in legno e arrotondare gli spigoli che lo caratterizzano in gioventù.
Dopo le incertezze del Ghemme, stavolta il naso è invaso dalla prorompente intensità di un frutto pieno e maturo ma senza eccessi, che si lega stupendamente con note speziate e balsamiche e con terziari di vaniglia, cioccolato e liquirizia, donando al vino un avvolgente equilibrio e una complessità che non ha niente da invidiare ai ben più noti Barbaresco in quanto a potenza ed eleganza. Un vino che ad ogni minuto acquisisce sentori differenti.

5 - Barolo Castiglione di Vietti, 1999: Il Re nudo (o Vorrei ma non posso)

Ed eccoci allora alla prova del nove, il confronto con un gigante fra i giganti, il Barolo di Vietti, con lo storico pregiato cru Le Rocche. Ce ne sarebbe abbastanza per non cominciare neanche il confronto. 
La parola passa quindi a Luca Currado, che ci dà alcuni accenni sui territori degli 11 comuni del Barolo (sono 11 anche se 2 sono talmente piccoli che generalmente se ne citano solamente 9). Il territorio del Barolo è di origini marine, ed è caratterizzato da colline morbide, formatesi con l’innalzamento del bacino. Colline che si sono elevate prima di quelle del Roero e del Barbaresco. Sono comuni che hanno caratteristiche di terroir piuttosto differenti fra loro che conferiscono ai vini sentori e caratteristiche molto differenti. Un esempio su tutti: il comune della Morra è più sabbioso rispetto a quello di Castiglione Falletto e dona vini più eleganti. L’enologo e proprietario di casa Vietti quindi entra nello specifico del cru Le Rocche, zona di produzione del vino in degustazione. E’ una zona molto ripida, di 6-7 ettari, composta prevalentemente dal cosìddetto “tufo blu”.
Il 1999 ci dice Currado è stata un’annata piovosa e fresca che ha fatto sbocciare l’estate solo fra Agosto e Settembre. Questo clima ha donato al vino un’acidità fantastica e struttura, complessità e freschezza incredibili ancora oggi.
E invece al primo sorso è quasi una delusione o quantomeno un’aspettativa tradita. Il Barolo si nasconde e fa le bizze, come un bambino capriccioso che non vuole ancora crescere. E’ duro, con tannini mordaci che non lasciano uscire tutto il potenziale - che pure c’è e si scorge - di questo grande vino. Resta lì, quasi insensibile ai numerosi assaggi tentati come a offrirgli una nuova possibilità, e solo alla fine, con la bocca già felpata dalle corazzate tanniche dei predecessori, lascia gustare timidamente la stoffa del campione. Troppo poco (forse anche il tempo di apertura della bottiglia lo è); un vero peccato. Questo vino probabilmente darà il meglio di sé tra almeno 15 anni.

6 - Barbaresco Vigneto Gallina, La Spinetta (Rivetti), 1999: sensualità allo stato puro

Non c’è tempo per far decantare l’aspettativa in parte tradita, è il turno dell’ultimo, e anche per questo più atteso, pezzo da 90 della serie: il Barbaresco di Rivetti. Giorgio Rivetti non ha più molto da aggiungere, come ci dice lui, il Nebbiolo è un vitigno forte di per sè. I vitigni di Rivetti si estendono sia nella in zona di Barolo che in quella di Barbaresco, dove quest’ultimo viene definito “più elegante e più sexy”. E la stessa insufficienza di parole si manifesta ben presto anche in noi già dal primo avvicinamento: il naso è travolto da un’alluvione di aromi straripanti. Si comincia con i frutti rossi, ben assortiti con predominanza di mora, amalgamati maestosamente con una folta schiera di note speziate (l’immancabile pepe su tutte), balsamiche e con terziari di cuoio, tabacco, liquirizia e cioccolato. Lunghissimo in bocca: uno di quei vini da accompagnare alle migliori riserve di selvaggina, ma anche da degustare seduti sul divano per un intero pomeriggio.

Finisce così la nostra degustazione guidata, ma mi viene più da dire accompagnata, dai produttori di questi splendidi vini, con la sola aggiunta di poche note di degustazione da parte del preparatissimo Davide Panzieri. Usciamo per ultimi dopo aver ringraziato più volte ed esserci attardati a sorseggiare i vini ancora nel bicchiere. Nel cortile ci guardiamo ancora increduli, ancora sorridenti, ancora emozionati. Quel che è certo è che non dimenticheremo in fretta questa splendida esperienza sensoriale.

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