14 dicembre 2017

Vinoè, protagonista il vino

Vinoè, protagonista il vino

Per chiunque graviti nell’universo FISAR Vinoè non è soltanto la kermesse di due giorni appena conclusa alla Leopolda, ma un progetto, un’idea che aleggia nell’aria da ben prima del suo inizio, occupando la mente degli organizzatori, chiamati a un lavoro logistico certosino perché ogni singola rotella del meccanismo combaci alla perfezione con le altre, mettendo in moto la grande macchina.

Vive nella mente di chi si mette a disposizione per prestare la propria opera, (dal delegato Lorenzo Sieni in giù, ogni gradino della scala gerarchica è importante e fondamentale per la realizzazione del progetto) e dei sommelier chiamati ad una maratona di servizi, dei relatori che pianificano verticali e degustazioni, dei produttori che presentano i propri vini.

Il countdown sul sito dedicato non scandisce solo il tempo che separa dalla manifestazione, ma anche i ritmi di un’attesa elettrica che cresce, foriera di importanti eventi e novità: appendice al 45° congresso nazionale FISAR, a Vinoè sono stati mostrati, alla presenza della presidente nazionale Graziella Cescon, il nuovo logo e il sito rinnovato, ed eletto il miglior  sommelier dell’anno fra 9 agguerriti e validi concorrenti (complimenti a Emanuele Costantini!).

Accanto a questi eventi istituzionali ha poi convissuto l’aspetto più ludico legato alle degustazioni, alle masterclass, alle dimostrazioni gastronomiche,  patrimonio di ogni appassionato e curioso del vino che ha avuto la fortuna di transitare dalla Leopolda nei due giorni del primo week end di novembre: Vinoè è stata una grande festa della cultura enoica, trasversale, ed è riuscita a coinvolgere tutti, fisariani o no, esperti ed appassionati, navigati o neofiti come la sottoscritta.

Ciò premesso, metto subito in chiaro il mio manifesto d’intenti: quella che segue non vuole essere, e non sarà, una cronaca rigorosa dei numerosi eventi svolti fra sabato 5 e domenica 6, ma il racconto assolutamente parziale ed arbitrario di come ho vissuto io Vinoè, la narrazione di un’appassionata del vino che in una piovosissima domenica (la prima di vera pioggia della stagione, Vinoè bagnato, Vinoè fortunato?) si è ritrovata catapultata in quello che, nel remoto caso si dovesse reincarnare in Alice, sarebbe senz’ombra di dubbio, il suo personalissimo paese delle meraviglie.

Domenica 5, la matematica del piacere

Per chi ama i freddi numeri: 123 produttori di vino selezionati da ogni regione d’Italia occupano i cosiddetti “banchini di degustazione”: una media, spesso in difetto, di 4 vini in assaggio per ognuno.

Sette appuntamenti a sfondo gastronomico fra cooking show e dibattiti, con protagonisti quali Luca Lacalamita (pastry chef dell’Enoteca Pinchiorri), Valentino Cassanelli e Sokol Ndreko (rispettivamente chef e  direttore di sala, miglior maître d’Italia 2017, del Lux  Lucis), Cristiano Tomei (anima, mente e mani dell’Imbuto).

Dieci degustazioni guidate, spesso alla presenza del produttore, con etichette che in alcuni casi sfiorano la leggenda (Montepulciano d’Abruzzo Emidio Pepe, Pergole Torte Montevertine, what else?).

Sette eventi culturali aperti al pubblico, dal dibattito sullo stato della viticoltura italiana presieduto da Giuseppe Martelli, (Presidente Comitato Nazionale Vini del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali), a FISAR in rosa che racconta i vini della tradizione “raccontati da intraprendenti vignaiole”, dall’elezione del miglior sommelier 2017 al dibattito, quanto mai dolorosamente attuale su “Cambiamenti climatici e viticoltura”, moderato da Tessa Gelisio.

Invece che perdere tempo in calcoli sterili, mi rendo subito conto che nemmeno fossi uno degli X-Men sotto copertura, potrei far fronte a una tale mole di eventi.

Bisogna selezionare: dedicherò la domenica ai produttori presenti in fiera per gli assaggi, e il lunedì a masterclass e degustazioni. Un buon compromesso fra la parte epicurea che reclama vino, vino e ancora possibilmente vino, e quella cerebrale che richiede un’attitudine più intellettuale alla materia (e mi ricorda che, non essendo appunto un X-Man, ho lo stomaco e il fegato di un essere umano medio).

Alle 11.30 entro in una Leopolda già in fermento, bicchiere al collo e guida agli espositori alla mano, agguerrita: la prima tappa è al Cooking Show di  Pizza & Peace, associazione fondata da quattro dei migliori pizzaioli italiani del momento, Massimo Giovannini (Apogeo, Pietrasanta), Graziano Monogrammi (La Divina Pizza, Firenze), Paolo Pannacci (Lo Spela, Greve in Chianti) e Giovanni Santarpia (Santarpia, Firenze), che si alternano alla creazione  non della ma ”delle” pizze: fritta, al taglio, al vapore e gourmet. Il paradiso di noi “carboidrato addicted”, che stiamo col naso all’insù cercando di carpire il segreto dell’incredibile manualità dei pizzaioli.

Il richiamo della natura enofila non si fa però attendere, e l’occhio comincia sempre più a volgere verso il grande ambiente di fascino postindustriale che accoglie i produttori: la folla di persone in fila alle lunghe tavole è consistente, il fermento che si respira nell’aria già all’entrata ha preso ora corpo sotto forma di una serpentina di persone che più o meno ordinatamente prende d’assalto i banchi d’assaggio.

Le operosissime “magliette bianche”, ovvero i volenterosi soci FISAR che, non avendo ruoli o competenze strettamente tecniche, aiutano nelle mansioni più pratiche, fanno avanti e indietro con casse cariche di bottiglie vuote, prontamente riassortite. Per inciso, io avrei potuto far parte delle magliette bianche ma ho egoisticamente declinato l’invito alla partecipazione lavorativa, in favore del puro svago enologico: sono un cattivo soggetto, lo so.

A questo punto la festa è nel vivo, e ognuno fa il suo gioco, selezionando e assaggiando ciò verso cui il proprio palato o l’estro lo conduce: nessun limite agli assaggi, nessun noioso timbrino da apporre su microscopiche tesserine che, di solito, hanno anche la diabolica attitudine a cadere da tasche o borse facendo perdere al malcapitato il beneficio delle rimanenti degustazioni.

Qui ognuno stabilisce il proprio limite all’assaggio: il mio, devo dire, è stato estremamente elastico, tendente all’eccesso. Ogni volta che ho pensato “ora anche basta” sono stata pronta a ricredermi 50 centimetri più avanti (sì, sono anche un fenomeno d’incoerenza), al produttore successivo, che aveva sempre qualcosa d’interessante, da provare assolutamente, fosse per il  vitigno particolare, o la tecnica di vinificazione, o chissà che altro.

Non mi sono certo tirata indietro al “Cotto d’amore”, vino da mosto cotto proveniente dall’Abruzzo che prometteva risultati prodigiosi di ringiovanimento: ricorda parecchio alla lontana uno Jerez, naso e bocca dolcissimi di fico stramaturo, adatto senz’ombra di dubbio a entrare nei bicchierini di vetro soffiato di distinte signore un po’ âgées: parafrasando la nota canzone, io non sono una signora e dunque non rientra precisamente nei miei gusti; non ho neanche riscontato l’agognato effetto anti-aging, ma forse per quello ci vuole tutta la bottiglia anziché un assaggio…

Mi ero preparata un canovaccio di vini da testare: l’ho subito messo via e mi sono concessa la libertà di spaziare là dove mi conduceva anche il cuore oltre che la testa. Successivamente ho scoperto di aver assaggiato tutto quello a cui ero interessata, e anche molto di più, e devo dire che le sorprese più belle sono state proprio quelle inattese, quelle del banco dove magari ti fermi perché da Franz Haas, che caspita, c’è ancora una coda infinita, e allora intanto fermiamoci un po’ prima o dopo, hai visto mai che miracolosamente fra due minuti ci sarà meno gente.

Da Haas, per inciso, la coda è stata costante, ma l’attesa è stata premiata dal suo sempre eccezionale Pinot nero, e dalla possibilità di confrontarlo, nel giro di due minuti, con quello elaborato dal Rio e dal Podere della Civettaja: Alto Adige versus Toscana, chi vince?.

La partita del Pinot nero è appannaggio di Haas: il suo Alto Adige DOC Pinot Nero ha aromi deliziosi al naso di frutti di bosco e spezie dolci. In bocca è fresco, elegante, si deve compiere uno sforzo (che io infatti non faccio) per non finire il saggio nel bicchiere.

Onore però anche al Rio, degno concorrente, che ha il vanto di essere presentato dal produttore più originale e simpatico fra quelli conosciuti. Paolo Cerrini mette le sue doti istrioniche al servizio della promozione del suo IGT Toscana Pinot Nero "Ventisei" 2015, e fa bene: è stata la vena folle che non gli difetta a suggerire a questo ex orafo fiorentino di cambiare vita a metà degli anni ‘90 e dedicarsi alla coltivazione del Pinot nero in terra di Mugello, area fino ad allora considerata poco vocata alla coltivazione della vite. I risultati (ottimi) oggi sono espressi da un vino dagli aromi delicati di geranio e rosa appassita, piccoli frutti rossi e buona speziatura.

La Toscana è massicciamente rappresentata, il sangiovese esaltato in ogni sua declinazione: dal Chianti Classico Riserva 2013 Montefioralle alla Riserva "Le Vigne" 2013 Istine, dalla Gran selezione 2010 Losi Querciavalle alla Gran Selezione "Vigna Paronza" 2013 Casale dello Sparviero, ognuno può trovare la propria quadratura del cerchio.

Io intanto che decido mi sposto in zona brunello, dove scendono in campo due delle realtà piu’ interessanti: L’Azienda agricola Lisini, già attiva nella produzione di vino dal XVI secolo, e rimasta sempre nelle mani della stessa famiglia, e Fattoi, cantina più giovane, fondata dal padre Ofelio, e passata adesso ai figli, rimanendo sempre in una dimensione familiare, anche a livello di ettari vitati: 9 per Fattoi, 20 per Lisini.

Li testo sulla stessa annata, il 2012: aromi seducenti di sottobosco, viola e tabacco Lisini, e frutti di bosco, rosa appassita e buona speziatura Fattoi. Due scelte di stile diverse: una giocata sull’eleganza (Lisini), una sulla potenza (Fattoi). Il gioco del confronto per me lo vince Lisini, ma se qualcuno la pensa diversamente, sono perfettamente d’accordo: non tanto perché, come detto, tendo all’incoerenza, ma perché sono entrambi eccellente espressione dello stesso terroir.

Per gli inquieti e i curiosi ancora non paghi, c’è da spostarsi allo stand di Tenuta Benedetta di Daniele Noli, che dalla Toscana si è spostato sull’Etna, dove ha comprato, a Passopisciaro, una vigna di nerello mascalese, scoprendo alla prima vendemmia che quello che era stato dato per nerello era in realtà sangiovese: da buon toscano non si è fatto scoraggiare dalla circostanza, e da quelle viti ha ricavato un vino sorprendente, il Vigna Benedetta, di color rosso rubino carico, con un frutto succoso e caratteristici aromi di viola e liquirizia. Per la cronaca, interessante anche il suo Vigna Laura (elaborato dal vigneto di Castiglione di Sicilia, questo sì, piantato davvero a nerello), nerello mascalese all’80% e nerello cappuccio per la parte rimanente.

Di isola in isola, mi sposto all’Isola d’Elba, dove assaggio l’ IGT Toscana Rosso "Tresse" 2015 di Antonio Arrighi, ex albergatore riconvertito alla produzione del vino di qualità: salomonicamente Syrah 33%, Sagrantino 33%, Sangiovese 33%, ha la particolarità di subire un lungo affinamento in giare di terracotta da 800 litri. Ho ancora oggi in mente l’inebriante speziatura del Tresse, e la piacevolezza dell’ Aleatico DOCG "Silosò" 2016, ottenuto da grappoli lasciati naturalmente ad appassire all’aria aperta sotto l’influenza delle brezze marine su graticci: i sentori salmastri e di macchia mediterranea si accompagnano ad aromi deliziosi di albicocca candita.

Il Tresse mi fa venire voglia di sagrantino, e rimedio subito, dirigendomi da Romanelli, il cui splendido Montefalco Sagrantino DOCG "Medeo" 2012, è una delle cose che ricordo con più piacere del mio peregrinare fra vini e produttori: prodotto solo nelle migliori annate è un omaggio al fondatore dell’azienda. Aromi suadenti di frutta rossa matura, speziatura fine e persistente, sentore di legno non prevaricante, in bocca ha ottima struttura, di gran soddisfazione.

Non posso trascurare il Piemonte e fra la Barbera d'Asti Superiore DOCG 2015 La Carlina e il Barolo DOCG "Ravera" 2013, che potrei descrivere in mille modi, ma la cosa che per prima mi viene in mente e scriverò è buoni, buoni, buoni (alla faccia dell’analisi sensoriale e compagnia discorrendo), approdo a Ciek dove scopro tutte le declinazioni possibili dell’erbaluce, fermo, secco, dolce e spumante, ed è proprio su questo che si appunta la mia attenzione. Il metodo classico San Giorgio fa della freschezza e degli aromi floreali il suo punto di forza, per una beva piacevolissima e non necessariamente impegnativa.

Capitolo bollicine: non posso mancare un prosecco e scelgo il Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG Follador, corretto, fresco e fine, ma il mio cuore scalpita per i metodi classici, non ci posso far nulla, e mi fa approdare allo stand di BioChampagne, dove conosco l’intraprendente Mattia Giovanni Masiero, che ritroverò il lunedì alla masterclass sugli champagne della zona di Epernay: mi presenta un crémant di Borgogna elaborato da Yannick Grados che permane 2 anni sui lieviti con bolla fine e persistente, brillante, agrumato e floreale, che mi convince e sfata il pregiudizio secondo cui un Crémant sia necessariamente figlio di un dio minore.

Ormai s’è fatta una certa e la lucidità comincia a difettare (più del solito). Fra un’occhiata all’affollato cooking show di Luca Lacalamita che abbina il cioccolato all’olio d’oliva e le svariate chiacchiere scambiate con i numerosi amici trovati sul cammino degli stand, decido che è giunta la mia ora, e la giornata può dirsi conclusa.

 

Per amore di correttezza elenco i vini che ho degustato senza però parlarne (pensavate avessi deposto le armi così presto?): i friulani Aquila del Torre, che fra gli altri hanno presentato il Bianco Secco da uve Picolit "Oasi" 2015, la Ribolla Gialla Collio DOC Blazic, il Friuli Isonzo DOC Friulano 2016 Ferlat, il Collio Sauvignon "Fiegl" 2016 Fiegl, lo Sfursat della Valtellina DOCG 2012 Alberto Marsetti, il Fiano di Avellino DOCG "Brancato" 2015 Cavalier Pepe, gli eccellenti vini di Marisa Cuomo, al cui  Fiorduva Furore Bianco è stata dedicata in giornata una verticale, la prima i cui posti si sono esauriti sul sito e a cui non ho potuto a malincuore partecipare.

I meravigliosi Vermentini Colli di Luni DOC elaborati da Terenzuola in confronto a quello più strutturato e potente di Capichera: mentre mi avvio leggera e con la testa fra le nuvole verso casa, rigorosamente a piedi dopo tanto alcool, sono ancora tutti i vini degustati a riempire i miei pensieri.

Lunedì 6, il piacere dell’intelletto

Alle 11 di una mattina ancora gravida di nuvole foriere di pioggia supero la soglia d’ingresso: la ressa del pomeriggio precedente è un ricordo, ma c’è già fermento nell’aria. Sono in partenza due eventi tra i più interessanti (un vero peccato che si sovrappongano): “Lili Marleen e il Riesling”, e “Champagne, Epernay e d’intorni”.

Il primo esamina il concetto di longevità del riesling, mettendo a confronto tre coppie di vini, una giovane, una evoluta, una di lungo affinamento; per ogni coppia un vino secco e uno dolce o semidolce.

Il secondo ci fa fare un giro nella zona più antica vocata ai grandi champagne, col filtro della scelta di produttori esclusivamente biologici e/o biodinamici, rispondendo alla domanda: si può ottenere un grande Champagne applicando le tecniche dell’agricoltura non convenzionale dal campo alla cantina?.

Io, che ho già confessato di amare spudoratamente le bollicine, mi fiondo nell’area 5, dove Mattia Giovanni Masiero, il relatore e Aldo Mussio che guiderà egregiamente la degustazione, sono pronti a scaldare i motori della giornata.

“Epernay è la città dello Champagne. Niente di più, niente di meno” (Victor Hugo)

BioChampagne è un e-commerce nato un anno e mezzo fa per mano di un gruppo di giovani ragazzi vicentini da sempre appassionati di buon cibo e grandi bevute che, ad un certo punto, stanchi di subire i famigerati malditesta del giorno dopo provocati da solfiti e sostanze chimiche, si sono messi alla ricerca di vini non solo buoni e di prezzo accessibile, ma anche ottenuti da metodi di coltivazione rispettosi della salute sia del suolo che dell’uomo.

E siccome il loro entusiasmo li ha portati a scoprirne molti, in Francia e in Italia, hanno deciso di fare impresa e condividerli con un pubblico più vasto, mantenendo sempre un occhio di riguardo verso lo champagne.

Si recano a conoscere i produttori, assaggiano i vini, si incaricano se necessario di far svolgere analisi per appurare che il vino non sia in alcun modo alterato da sostanze e procedimenti chimici non ammessi e, quando sono convinti, si occupano dell’esportazione e vendita.

Mattia, uno dei soci di BioChampagne ci illustra la filosofia che sta alla base dell’impresa, e le storie di ognuno dei vigneron i cui vini sono rappresentati durante la masterclass. Aldo Mussio dirige la degustazione, facendoci scoprire ogni sfumatura dei vini:

Alain Bernard, Premier Cru Brut (Chardonnay 60%, Pinot nero 35%, Pinot Meunier 5%, 3 anni sui lieviti), floreale e agrumato, sapido e fresco, con un’ottima scia aromatica

Vincent Charlot, Le fruit de ma passion 2012 (Pinot Meunier 50%, Chardonnay 45%, Pinot nero 5%, 4 anni sui lieviti), tipica espressione del Pinot Meunier, frutto elegante, sorso equilibrato

Florence Duchêne, Brut Réserve (Chardonnay 60%, Pinot nero 35%, Pinot Meunier 5%, 60 mesi sui lieviti), aromi più evoluti verso la crosta di pane, minerale, in bocca entra tenue ed esplode nel finale

Vauversin Original Grand Cru, Blanc de Blancs (100% Chardonnay, 7 anni sui lieviti), elaborato da una delle più vecchie cantine della zona, oggi portata avanti dalla 14° generazione della stessa famiglia, complesso al naso e maestoso in bocca

David Coutelas Prestige Rosé (Pinot nero 100%, 90 mesi sui lieviti), naso tipico di piccoli frutti di bosco, fragoline, ribes, agrumato che evolve verso sentori dolci di pan brioche.

Vini eccellenti che meritano di essere scoperti, dal rapporto qualità/prezzo molto interessante, elaborati con cura sartoriale da artigiani vigneron ognuno con un proprio carattere peculiare.

Il mio preferito? senz’ombra di dubbio Vauversin Original Grand Cru, il Blanc de Blancs.

Elaborato a Oger, porta d’ingresso della Côte des Blancs, dove lo Chardonnay trova la sua massima espressione: perlage finissimo e persistente, giallo paglierino brillante, per la cuvée si utilizza il 40% di vini riserva, che conferiscono un ampio ventaglio d’aromi che partendo dalla mela matura arriva a toccare note di tostatura e lieve affumicato. Vino diretto, entra prepotente in bocca con un buon volume, rilasciando nel finale note di burro nocciola

Walter Massa, padre del Timorasso (o Timorosso)

Sarà che avevo appena lasciato Mattia Masiero e Aldo Mussio, e il loro modo garbato di interagire col pubblico, sarà che non me l’aspettavo, fatto sta che Walter Massa alla presentazione della verticale del  suo Timorasso DOC Sterpi (presentate le annate 2015, 2013, 2011, 2009, 2007, 2005), mi travolge con la stessa delicatezza di un diretto alla stazione.

E’ un uomo fortunato Massa, e sa di esserlo: pochi altri vignaioli hanno la fortuna di essere altrettanto identificati e sovrapposti a un vitigno. Parlare di Timorasso e di Massa è la stessa cosa.

E’ stato lui negli anni ‘80 che, seguendo la visione dettata da un’eccentrica genialità, ha cominciato a produrre un vino bianco in terra ad  assoluto appannaggio dei rossi. E non si è accontentato di questo, ma ha anche rivoluzionato la filosofia produttiva dominante, ragionando per “cru” e imbottigliando separatamente.

Lui dice che il vino non lo fa, ma lo “ricava”, e in un’ora e mezzo ci travolge con un’eloquio prorompente: ragionando di vino parla anche di società, politica, umanità, ecologia e finanza, perché è anche un uomo libero, Walter Massa, di pensare e dire ciò che gli pare, e questa, penso mentre assaggio lo Sterpi 2009, (il migliore secondo la mia modesta opinione), è probabilmente la sua fortuna più grande.

Ammetto che ho avuto delle difficoltà a percepire correttamente gli aromi dei vini proposti, data la temperatura a cui sono stati serviti, per volere dello stesso produttore: spiega che la sua filosofia è di concepire  il timorasso come il “timorosso”, ovvero un rosso camuffato da bianco, e dunque da servire a temperatura da rosso, poi però ci lascia liberi in futuro di berlo alla temperatura che ci pare, in quanto il vino, una volta “ottenuto”, non è più suo, ma di chi lo beve.

Emanuele Costantini, fresco d’elezione come miglior sommelier dell’anno, fa da contraltare all’impetuosità di Walter Massa, conducendoci pacatamente nella degustazione di vini, che seguono una curva evolutiva incredibile negli anni: dalle note floreali d’acacia e agrumate dei più giovani si arriva al dattero, alla frutta secca fino all’idrocarburo e ai sentori ossidativi delle annate più datate. La temperatura di servizio accentua la sensazione di pseudocalore, ma anche le annate più vecchie mantengono ottima acidità. Pieno in bocca, il finale è lunghissimo. Vini ricchi e particolari come chi li produce.

Mi godo solo per una mezz’ora l’eloquio di un altro pionere nel suo settore, la cucina stellata: Cristiano Tomei, genio e sregolatezza dell’Imbuto.

Abbandono quasi subito il suo cooking show perché mi aspetta l’ultima verticale, imperdibile.

Montevertine e Pergole Torte, l’intuizione del Sangiovese

Sergio Manetti, industriale siderurgico a Poggibonsi, compra nel 1967 un podere a Radda in Chianti: fa un buon affare perché proprio in quegli anni si assiste al tramonto definitivo della mezzadria, la campagna si spopola, il podere non è nemmeno di facile praticabilità, essendo posto molto in alto ed essendo raggiungibile solo attraverso strade piuttosto dissestate. Lo paga poco, ne farà una casa per le vacanze, e decide di produrre vino per sé e per gli amici, sfruttando i terreni vitati annessi alla colonica.

Destino vuole che la ferramenta da dove parte Sergio si trovi sulla via maestra di Poggibonsi, vicino all’abitazione e alla tabaccheria di un suo compaesano, con cui ha stretto da tempo una salda amicizia: l’enologo Giulio Gambelli, uno che di vino in generale, e di sangiovese in particolare, se ne intende. Da lì a chiedere la consulenza di Gambelli il passo è breve, e la conclusione della storia è racchiusa in vini mitici come Cannaio e Sodaccio, Montevertine, e soprattutto, Pergole Torte.

Ha sempre rifiutato di uniformarsi agli standard e alle mode Sergio Manetti, preferendo la libertà di lavorare fuori dalle regole del Consorzio del Chianti Classico, per perseguire, con l’aiuto costante di Giulio Gambelli, fautore fino agli ultimi giorni della sua vita di tutti i vini di Montevertine, la propria idea di come si dovesse elaborare un buon vino.

Ad oggi l’azienda prosegue nel solco della continuità grazie al figlio di Sergio, Martino Manetti, affiancato dall’enologo Paolo Salvi, allievo di Gambelli.

Sono entrambi presenti alla verticale di Pergole Torte delle annate 2014, 2013, 2012, 2010, 2009, e spiegheranno approfonditamente le condizioni pedoclimatiche  e le scelte produttive di cui è figlio uno dei più grandi, celebrati e longevi Supertuscan: 100% sangiovese proveniente dal vigneto Pergole Torte, più le uve migliori delle altre parcelle della tenuta, fa una fermentazione in vasche di cemento per 25 giorni. L’invecchiamento avviene per 12 mesi in barrique Allier nuove per il 20%, quindi in botti di rovere di Slavonia per altri 12 mesi. La fermentazione è sempre opera di lieviti autoctoni, e non c’è alcun controllo delle temperature in cantina.

Giampaolo Zuliani guida con mano sicura una degustazione che è emozione allo stato puro:

2014: figlio di un’annata difficile, è un po’ più sottile rispetto agli standard del Pergole Torte, ma trova comunque compimento in un bouquet d’aromi fine ed elegante. Tannino un po’ irruento ma piacevolissimo.

2013: annata molto tipica, con un gran potenziale d’invecchiamento. Aromi terziari di frutta e spezie dolci, strutturato. Tannino fine. Netto ed equilibrato in bocca.

2012: la prima annata senza Giulio Gambelli, un test importante. Naso fine, elegante, bel frutto, sentori di tostato dolce, vaniglia, nota balsamica. In bocca è un pò più corto rispetto al 2013; ha bisogno d’assestamento.

2010: grande annata. Note ematiche fuse ad eleganti sensazioni fruttate, spezie dolci e petali di rosa appassita. In bocca ha un’ottima struttura, avvolgente, tannino ben disteso.

2009:Figlio di un’annata molto calda, presenta aromi netti di ciliegia, terziari di spezie dolci, cuoio e tabacco. Bocca più esile rispetto al 2009, fa della verticalità il proprio punto di forza. Tannino fitto ancora un po’ astringente.

La giornata volge al termine, così come quest’edizione di Vinoè.

Vedo tante facce contente fra gli addetti ai lavori, gli espositori e i visitatori: non c’è bisogno di indagare oltre per capire come la manifestazione sia stata un successo per tutti.

Camminando verso casa vorrei trattenere in me il più a lungo possibile il ricordo di tutte le esperienze fatte, le persone conosciute. Questi due giorni sono passati in un soffio, eppure sono stati anche densi, racchiudono un bagaglio di nuove conoscenze che mi pare impossibile aver assimilato in così breve tempo.

Un pensiero breve e incisivo mi coglie rincasando, e trovo sia la sintesi perfetta per capire cosa è stato per me e, credo, per molti altri, questa manifestazione, e si palesa sotto forma di domanda, che rivolgo al delegato Lorenzo Sieni:

-Gentile delegato, sarebbe mica possibile organizzare una Vinoè al mese?.


 

Valentina Pizzino
Valentina Pizzino

Nata a Firenze da una famiglia di astemi, non ha mai dubitato che nelle sue vene scorresse Chianti Classico. Lavora fra i libri, ma gli scaffali che preferisce sono quelli delle enoteche. Il suo centro di gravità permanente è sempre ruotato attorno a una bottiglia.

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